Per l’escursionista della domenica è difficile cogliere a un primo sguardo gli effetti di un apporto eccessivo di azoto nella foresta che sta attraversando. L’occhio esperto, invece, scorge numerosi indizi: mentre rovi, ortiche, sambuco e altri vegetali nitrofili si moltiplicano, il resto della foresta va indebolendosi, con fioriture ritardate, problemi di crescita e così via. Per le essenze più esposte quali faggio, quercia e peccio, gli squilibri nutritivi legati all’eccesso di azoto compromettono lo sviluppo e le profondità di radicamento, limitando la resistenza al maltempo, alla siccità, agli organismi nocivi e ai parassiti.

Per le foreste, gli esiti a lungo termine sono deleteri poiché, sotto forma di nitrati o ammoniaca, l’azoto «scaccia» altri minerali utili alle piante quali calcio, potassio o magnesio. Ne risultano un’acidificazione del suolo e un impoverimento che hanno ripercussioni sulle piante e sugli alberi, spiega Sabine Augustin, collaboratrice scientifica presso la sezione Protezione e salute del bosco dell’UFAM. «Con l’acidificazione, si riduce il numero di lombrichi e scompaiono quelli che scavano in profondità nel terreno. Questo ha conseguenze fatali su numerosi processi quali l’aerazione del suolo o la decomposizione delle foglie morte e dei detriti vegetali. Inoltre, le radici sono meno profonde. L’apporto di nutrienti si impoverisce, provocando uno squilibrio negli alberi e rendendoli meno resistenti al maltempo, alla siccità, ai parassiti e agli organismi nocivi. A lungo termine, e in caso di carico di azoto elevato, possono verificarsi disturbi della crescita».

Ciò nonostante, al suo stato naturale l’azoto è essenziale per la crescita delle piante e, più in generale, per tutti gli esseri viventi. Nelle foreste giunge come nitrato o ammonio di origine antropica, e ciò sotto forma di precipitazioni (deposito umido) o sotto forma di gas e particelle fini (deposito secco). Gli alberi lo assorbono attraverso le radici, ma anche direttamente dall’atmosfera, attraverso le foglie o gli aghi.

Ma è la dose che fa il veleno o, in questo caso, che genera un effetto ci concimazione eccessiva, sottolinea Sabine Braun, ricercatrice presso l’Institut de biologie végétale appliquée. «Superate determinate soglie, l’eccesso di azoto reattivo altera l’equilibrio nutritivo degli alberi, del suolo e del sottosuolo. Le perturbazioni più significative riguardano le reti di funghi micorrizici, che sono indispensabili agli alberi poiché senza di essi la loro capacità di assorbire acqua e nutrienti è compromessa».

Origine antropica

Il problema è che il carico critico ammissibile, fissato dalla Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE) fra 3 e 15 kg/ha per le foreste di conifere e fra 10 e 15 kg/ha per le foreste di latifoglie, è oramai superato. Prima dell’era industriale, le emissioni di azoto di origine naturale erano di 2 – 3 kg/ha l’anno.

Oggi, su un ettaro di foresta in Svizzera si depositano in media 20,4 kg di azoto l’anno, con picchi che localmente superano 60 kg/ha. «Questo fenomeno riguarda ovviamente l’intero continente. In Svizzera, le emissioni per ettaro di terreno agricolo sono le terze più alte, dopo i Paesi Bassi e il Belgio», constata Sabine Braun. Si osservano differenze regionali significative: sull’Altopiano, dove si trovano numerose aziende agricole e allevamenti di bestiame e di suini, questo valore può raggiungere 60 kg/ha, ovvero da 20 a 30 volte le soglie naturali. Quanto ai livelli molto elevati che si registrano in Ticino, sono dovuti all’intensa attività industriale e agricola del Norditalia.

L’origine antropica di questo eccesso di azoto è ormai indiscutibile, e non è una coincidenza che le foreste più vicine alle aree rurali siano anche le più esposte, spiega Sabine Braun. «Le emissioni nell’atmosfera prendono essenzialmente due forme: la prima è l’ossido di azoto, che proviene soprattutto dall’industria e dai trasporti stradali. La seconda è l’ammoniaca, che proviene per due terzi dalle attività agricole», riassume la biologa.

L’azoto che si deposita sulle foreste continua il suo ciclo. Una parte si ritrova nel dilavamento dei nitrati, facendo così della foresta un’ulteriore fonte di azoto che finisce nelle acque. Dal 2000 la Svizzera calcola a intervalli decennali i flussi di azoto nelle acque, ricorrendo al modello MODIFFUS. Gli ultimi dati rilevati hanno permesso di quantificare la parte complessiva dovuta all’agricoltura, prendendo in considerazione questo apporto supplementare. «Tenendo conto di tutte le fonti, nel 2020 sono finite nelle acque svizzere 70 000 tonnellate di azoto», spiega Georges Chassot, collaboratore scientifico presso l’UFAM. Il 40 per cento proviene dai terreni agricoli, ma la quota dell’agricoltura sale a 46 per cento se prendiamo in considerazione anche l’apporto delle emissioni di ammoniaca di origine agricola per le foreste o altre superfici e che si perde sotto forma di nitrato».

Miglioramenti in corso

Considerando tutte le fonti, due terzi dei depositi di azoto atmosferico provengono dall’agricoltura e un terzo dai processi di combustione: trasporti, riscaldamento e industria. In Svizzera, le misure adottate per ridurre le emissioni di ossido di azoto hanno portato a miglioramenti significativi, poiché oggi i valori limite per il biossido di azoto, ad esempio, sono superati solo sporadicamente nelle aree di traffico più intenso. Questo è il risultato delle normative più severe imposte all’industria e al settore automobilistico (l’uso generalizzato di catalizzatori ne è un esempio).

Nei prossimi anni, la graduale sostituzione dei veicoli diesel o a benzina e l’aumento degli spostamenti a piedi e in bicicletta dovrebbero contribuire a ridurre ulteriormente questo inquinamento. Le emissioni di ammoniaca dall’agricoltura, invece, sono diminuite solo molto lentamente dall’inizio degli anni Duemila e sono ancora ben al di sopra dell’obiettivo fissato nella Strategia federale per la protezione dell’aria.

Focus sullo spandimento dei liquami

Poiché è all’agricoltura che è dovuta la maggior parte delle emissioni di azoto, è su questo fronte che si possono ottenere i miglioramenti più consistenti, in particolare per lottare contro la volatilizzazione dell’ammoniaca durante lo spargimento di concimi. Questo fenomeno dipende dal tipo di concime utilizzato e da altri fattori complessi: il momento dello spargimento e il metodo applicato, le condizioni climatiche, il tipo di terreno e le caratteristiche fisiche e chimiche delle sostanze. Mettere al riparo dalle precipitazioni i luoghi in cui sono conservati i concimi e ricoprire rapidamente di terra le sostanze dopo il loro spargimento permette di ridurre le perdite.

Anche le normative sono destinate a cambiare: entro il 2030, le cisterne di liquame dovranno essere coperte in modo da ridurre le fuoriuscite di ammoniaca e, dal 2024 in poi, il liquame dovrà essere sparso utilizzando sistemi a basse emissioni, quali tubi flessibili a strascico, che disperdono meno NH3 nell’aria rispetto a uno spargimento convenzionale con getto a ventaglio. Sabine Augustin ritiene tuttavia che la vera sfida, più collettiva, riguardi la società nel suo insieme. «Il numero medio di animali per ettaro è troppo alto. Dobbiamo incoraggiare un’agricoltura sostenibile». Ne va della salute delle nostre foreste.